Brevetto unitario e sede distaccata di Milano del Tribunale Unificato dei Brevetti: i risvolti pratici
Lo scorso 1° giugno è stato istituzionalizzato il Tribunale Unificato dei Brevetti e del Brevetto unitario (Tub), una corte internazionale con giurisdizione sui brevetti unitari ed europei, con lo scopo di semplificare e uniformare le decisioni inerenti alla protezione dei brevetti. La corte sarà composta di tre sedi: quella principale, a Parigi, giudicherà sui brevetti farmaceutici e chimici; quella di Monaco di Baviera deciderà sui brevetti metallurgici; quella milanese, infine, dirimerà le controversie brevettuali in materia di scienza medica-veterinaria e igiene, i brevetti farmaceutici privi dei certificati di protezione supplementari (Spc), il settore biomedico (escluso il farmaceutico), l'agricoltura, il food, l'enogastronomia e il tabacco, gli articoli personali e domestici, lo sport e mondo del divertimento, le calzature, la moda e l'arredo. Milano, dunque, sostituirà la sede di Londra (iniziale terza candidata prima della svolta Brexit), ma cederà, purtroppo, una quota consistente delle competenze londinesi a Monaco e Parigi. Infine, la Corte d'Appello del Tub avrà sede a Lussemburgo. Dopo le comprensibili rimostranze presentate da decine di illustri accademici, studi legali e associazioni, seguite dai numerosi appelli presentati nelle mani del Ministro Giorgetti, in cui l'Italia, e in particolare Milano, veniva descritta come la candidata ideale per ricoprire il ruolo di terza sede del Tub, la sensazione è quella di essere stati, sì, scelti, ma lasciati un po' "indietro", laddove quella meneghina, al di là dell'entusiasmo mediatico, sarà una sede che entrerà in funzione con ritardo rispetto alle due centrali (già inaugurate lo scorso 1° giugno), e, per l'appunto, con competenze drasticamente ridotte. In ogni caso, non volendoci soffermare troppo su quello che "si sarebbe potuto fare", dobbiamo ritenere indubbio il vantaggio per il mondo produttivo, nel cui contesto le aziende non saranno più obbligate, in queste materie, a vedersi potenzialmente giudicate da una molteplicità di giudici esteri, e che vedranno drasticamente ridotti i costi di registrazione e mantenimento dei propri titoli "unici". Il Brevetto Europeo consiste infatti in un insieme di diritti di esclusiva che potranno essere indipendentemente azionati nei territori designati dal brevetto stesso, senza le validazioni e i pagamenti annuali previsti per i brevetti nazionali. In altre parole, il Tub darà la possibilità alle imprese di essere giudicate da Corti multinazionali, all'interno delle quali saranno presenti giudici di diverse nazionalità (compresa, potenzialmente, la propria), le cui decisioni spiegheranno i loro effetti in tutta Europa, con notevoli vantaggi in termini di costi, ed evitando la necessità di resistere (o agire) avanti a una...
Gestisco un’attività online: perché è importante registrare un marchio?
Il marchio, per il diritto, è qualunque segno suscettibile di essere rappresentato graficamente. Esso, nella prassi, consente a un distributore di prodotti o servizi, sia esso un singolo oppure un’azienda, di distinguersi dai propri competitors agli occhi del consumatore o del fruitore del servizio. Il marchio si distingue in denominativo (quando è composto da una parola), figurativo (quando si compone di un’immagine), misto (quando è formato da ambedue), di forma (quando rappresenta una determinata forma), olfattivo, di suono, di colore. Registrare un marchio, al rispetto di certi requisiti, significa rendersi riconoscibili agli occhi della clientela e ritagliarsi uno spazio nel mercato che diventa intoccabile e non “aggredibile”. Un marchio registrato, infatti, può essere fruito da terzi solo con il consenso del titolare, tramite contratti di cessione o licenza del marchio. Sono sempre di più gli imprenditori che decidono di registrare un numero sempre maggiore di marchi, uno per ogni singolo prodotto o servizio che immettono sul mercato, e ciò risulta vantaggioso per una molteplicità di ragioni: 1. In primis, un pacchetto marchi è un valore economico, che in caso di trasferimento d'azienda o cessione di ramo d’azienda costituirà una voce contrattuale importante; 2. In secondo luogo, la registrazione dei marchi consentirà un diritto di uso esclusivo al titolare degli stessi su tutto il territorio (nazionale o internazionale) in cui avverrà la registrazione per 10 anni dalla data del deposito, che potrà essere estesa per altri 10 anni per un numero illimitato di volte; 3. Di conseguenza, il titolare del marchio avrà diritto a difendersi, a livello amministrativo o giudiziale da eventuali marchi simili o confliggenti e da contraffazioni, o richiedere che un diritto registrato in mala fede possa essere cancellato oppure ritrasferito al legittimo titolare. Nonostante il marchio non registrato non possa dirsi del tutto privo di tutela (il c.d. marchio di fatto), esso necessita dell’esibizione in giudizio di numerose e spesso gravose prove di esistenza sul territorio al fine di non soccombere di fronte a un marchio registrato. Il titolare del marchio deve infatti provare i fatti costitutivi del suo diritto di esclusiva, che consistono nel suo uso attuale, nella sua notorietà e capacità distintiva, nella sua estensione territoriale e merceologica. Il nostro consiglio per chi si affaccia a un nuovo business è sempre di registrare il marchio nelle classi appartenenti alla Classificazione di Nizza di loro interesse, e di non mostrare a nessuno il proprio marchio prima dell’avvenuto deposito. Il marchio, infatti, tutela in questo caso l’impresa...
Hanno copiato l’arredamento del mio negozio, posso tutelarmi?
Corte di Cassazione, sent. n. 8433 del 30.04.20 - c.d. “caso Kiko c. Wycon” La questione in oggetto riguarda la controversa tematica della tutela del c.d. concept store. Con questa definizione si intende il complesso di componenti che formano l’arredamento di un negozio, con il relativo layout, in tutti i casi in cui gli elementi di creatività risultino sufficienti “a rendere originale e creativo il progetto di architettura e quindi meritevole di tutela ex art. 2 n. 5 L.A.”. Il caso in esame riguardava l’asserita appropriazione da parte di Wycon dell’insieme di tutti questi elementi, che componevano il progetto di architettura di interni creato da KIKO per i suoi negozi. Il design interno dei negozi Wycon, secondo KIKO, risultava d’impatto assolutamente identico, con differenze del tutto irrilevanti, e pertanto inidonee a escludere la contraffazione del progetto di architettura altrui. In aggiunta, KIKO sosteneva anche la configurazione di un’ipotesi di concorrenza parassitaria ex art. 2598 c.c. n. 3, stante il realizzarsi di una serie di comportamenti quali l’imitazione nella scelta dell’abbigliamento delle commesse, dei sacchetti, e della pubblicità realizzata online. KIKO nel caso si esame aveva provato, fin dal primo grado, ad essere dichiarata la legittima titolare dei diritti di utilizzazione economica sul progetto di architettura realizzato e utilizzato per i suoi negozi. Ciò significa, nel caso di specie, che seppure all’autore (in questo caso, l’architetto o il designer) spettassero i diritti c.d. “morali”, era alla KIKO che spettavano i diritti esclusivi di sfruttamento economico dei risultati di opera creativa posta in essere dal lavoratore autonomo su commissione. Ciò, naturalmente, avveniva dietro compenso, che in questo caso era pari a € 70.000,00, che KIKO aveva investito per assicurarsi un progetto assolutamente creativo e unico per i suoi negozi. La Corte di Cassazione, nella sentenza in oggetto, ha confermato di fatto la possibilità di tutelare i concept store non solo come modelli di design ex art. 2 n. 5 l.d.a, ma anche come progetti di opera dell’architettura, a patto che essi possiedano quel grado di originalità tale da poter essere coperti dalla tutela autorale proprio in quanto creativamente distinguibili da quelli dei concorrenti. KIKO ha dimostrato, a partire dal primo grado, che il commissionamento di quello specifico modello di design d’interni era stato studiato per essere adattato e replicato in ogni punto vendita, adattandosi alle diverse caratteristiche e agli spazi più diversificati, pur non perdendo mai la propria unitarietà e le sue caratteristiche di distinguibilità (per l’adattamento ai singoli punti vendita,...
George Clooney ed Elisabetta Canalis “paparazzati” a Villa Oleandra: è violazione del diritto all’immagine
(Corte di Cassazione, sez. I Civile, ord. n. 17217/21; dep. il 16 giugno 2021) Il caso La vicenda trae origine dalla decisione di George Clooney di convenire in giudizio il Gruppo Editoriale Mondadori e Alfonso Signorini (direttore del periodico “Chi”) lamentando la violazione del diritto all’immagine per essere stato “paparazzato” in atteggiamenti intimi con l’allora compagna Elisabetta Canalis, presso la sua nota Villa comasca. L’attore chiedeva contestualmente la pubblicazione della decisione giudiziale sullo stesso periodico che aveva pubblicato illegittimamente gli scatti. I primi due gradi di giudizio In primo grado i giudici condannavano in solido il Gruppo Editoriale e il direttore del giornale al risarcimento dei danni, per un ammontare pari a 300.000,00 €, accogliendo la domanda di Clooney e disponendo la pubblicazione della sentenza sul settimanale “Chi”. La Corte d’Appello riformava parzialmente la decisione, riducendo la condanna a 40.000,00 € sul presupposto che risultasse provata, sì, la violazione del diritto alla riservatezza, ma che la quantificazione operata dai giudici delle prime cure fosse eccessiva, perché comprensiva del riconoscimento di un danno di natura patrimoniale. Secondo i giudici di secondo grado, infatti, il danno patrimoniale non poteva dirsi provato, in quanto, alla luce del fatto che l’attore non avesse dato alcun consenso alla pubblicazione delle immagini relative alla propria vita privata, lo stesso aveva pure, indirettamente, negato qualunque possibilità di sfruttamento economico di quelle stesse immagini. Del pari, la Corte riteneva che la lesione avesse avuto una durata limitata del tempo, e che le foto scattate non configurassero un’intrusività sufficiente a riconoscere un danno patrimoniale di tale entità. Il ricorso per Cassazione Clooney proponeva allora ricorso per Cassazione sostenendo l’erroneità del mancato riconoscimento della voce di danno patrimoniale da parte della Corte d’Appello, sul presupposto che i danni patrimoniali debbano considerarsi in re ipsa tutte le volte in cui conseguano all’illecita pubblicazione dell’immagine altrui. Secondo la star, la Corte d’Appello avrebbe inoltre errato nel ritenere che la rinuncia alla pubblicazione delle fotografie escludesse di per sé qualunque possibilità di sfruttamento economico delle stesse. Infatti, argomentano i legali di Clooney nel ricorso, tale volontà, quand’anche esplicitamente espressa, resta comunque reversibile, e dunque “suscettibile di ripensamento nel tempo”. La decisione della Corte La Corte accoglie le doglianze di George, ed in particolare il motivo di ricorso di cui si è detto, ripercorrendo argomentazioni e non discostandosi da alcune proprie pronunce più o meno risalenti, stabilendo che dall’espressa volontà di vietare la pubblicazione di foto relative alla vita privata di un VIP non possa discendere...
Sono un influencer: posso pubblicare delle foto agli Uffizi (come Chiara Ferragni)? Pare proprio di no!
Potrebbe sembrare banale, potrebbe apparire ovvio, ma così non è. Pare che la visita agli Uffizi da parte Chiara Ferragni nel luglio dello scorso anno abbia portato con sé, oltre all’inestricabile querelle sul destino dell’arte, anche diverse conseguenze concrete di non poco conto. Ma facciamo un passo indietro: nell’estate del 2020 Chiara si era recata al Museo degli Uffizi di Firenze per uno shooting fotografico organizzato per Vogue Hong Kong. Con l’occasione, la stessa aveva visitato il Museo in compagnia del direttore Eike Schmidt. Proprio in quella giornata, Chiara postava la famosa foto davanti alla Venere di Botticelli, destinata a destare uno scandalo senza precedenti, ma contestualmente (e incontrovertibilmente), avvicinava il pubblico dei giovani al museo come non accadeva da tempo (forse, da mai!). Dunque, Chiara si fotografa al museo. Fin qui, nulla di strano, ci verrebbe da dire, posto che lo stesso museo non era di certo nuovo a iniziative di questo tipo, né estraneo al mondo dei social network (a titolo esemplificativo, esso è stato il primo museo in Italia a sbarcare su TikTok, la nota piattaforma dei giovani e giovanissimi). Ma, tornando al nostro titolo, perché, a partire dall’ “evento Chiara” non si può più pubblicare sui social o sul mio blog una foto agli Uffizi? E soprattutto, per chi vale questo divieto? Da quest’ultimo punto di vista, occorre in primo luogo precisare che tale divieto è sancito solo ed esclusivamente a carico degli influencer, e non dei privati, intesi come anonimi fruitori dell’arte, che pubblicano le foto a meri fini personali. Per influencer, in questo caso, deve intendersi chi utilizza i social per scopi lavorativi e commerciali. Ma da dove nasce questa regola? Ebbene, il direttore Schmidt ci tende a precisare di non essersi inventato nulla: il D.L. 83/2014 (art. 12 co. 3), infatti, così come consente di scattare fotografie alle opere per fini personali e di studio, al contempo vieta l’utilizzo a fini commerciali, a meno che non sia stata rilasciata dal Museo previa autorizzazione e il pagamento di un canone. Restano esclusi da tale divieto, precisa il direttore, i privati che gestiscano blog a “uso personale, o saltuario, o scientifico, o di cronaca o comunque non di lucro”. La ratio sottesa a tale scelta è quella di evitare che chi fa un uso commerciale dei social si serva di fotografie scattate all’interno del Museo per ottenere pubblicità o facilitare la vendita dei propri prodotti, senza che sia corrisposto un canone per lo sfruttamento commerciale dell’immagine...
Mascherine chirurgiche con marchio CE contraffatto: il reato sussiste? Che cosa ne è del profitto sequestrabile?
La sentenza n. 39356/2021 della Cassazione prende in esame un caso di vendita di mascherine chirurgiche con marchio CE contraffatto. I reati contestati sono i seguenti: frode in commercio e vendita di prodotti industriali con segni mendaci. Sussiste l’illecito penale tutte le volte in cui si ingeneri nel consumatore l’errata convinzione che i prodotti rechino il marchio CE - Comunità Europea -, poiché l’apposizione di quest’ultimo ha la funzione di certificare la conformità del prodotto ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato Europeo. Ma qual è il profitto del reato suscettibile di sequestro preventivo e di confisca? Ebbene, per la Suprema Corte non ci si deve riferire alla somma incassata dalle vendite, bensì a quella risultante dalla differenza tra quanto ricavato e quanto speso per la fornitura delle mascherine, escluse le imposte (per esempio l’IVA). La sentenza vede il ritorno della giurisprudenza a pronunciarsi, in un contesto peculiare come quello dell’emergenza Covid, sui reati di frode in commercio e vendita di prodotti industriali con segni mendaci, nonché sulla quantificazione del profitto del reato. La vicenda traeva origine innanzi il Tribunale di Piacenza, il quale, con ordinanza del 17 dicembre 2020, aveva rigettato l’istanza di riesame proposta dall’indagato avverso decreto di sequestro preventivo disposto, per la somma di Euro 250.813,70, nell’ambito di procedimento per i reati di cui agli artt. 515 e 517 c.p. L’accusa era di vendita di mascherine di tipo chirurgico con marchio CE contraffatto, senza la prescritta certificazione di conformità, contestazione che veniva impugnata mediante ricorso per Cassazione. Secondo il ricorrente non risultava integrata la fattispecie di cui al capo d’imputazione, non essendovi alcuna diversità di oggetto tra quanto pattuito e quanto consegnato agli acquirenti, e trovandosi peraltro negli stessi atti di indagine conferma della insussistenza dell’illecito penale. Nell’annotazione della P.G. si sarebbe in particolare riferito che per le mascherine chirurgiche, dispositivi medici di classe I, non risultasse necessaria alcuna autorizzazione o certificazione prima della loro messa in commercio. Nella consulenza tecnica fatta eseguire dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo si sarebbe rilevato inoltre come la certificazione CE per i dispositivi di categoria I (come quelli in oggetto, non mascherine FFP2 ma semplici mascherine monouso non costituenti dispositivo medico) fosse prevista su criteri autocertificativi, senza nessun intervento di enti o di certificatori esterni, ma sulla base di un'auto attestazione da parte del fabbricante o dell'importatore. Infatti, ai sensi del D.Lgs. n. 46 del 1997,...