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Sono un influencer: posso pubblicare delle foto agli Uffizi (come Chiara Ferragni)? Pare proprio di no!

Potrebbe sembrare banale, potrebbe apparire ovvio, ma così non è. Pare che la visita agli Uffizi da parte Chiara Ferragni nel luglio dello scorso anno abbia portato con sé, oltre all’inestricabile querelle sul destino dell’arte, anche diverse conseguenze concrete di non poco conto. Ma facciamo un passo indietro: nell’estate del 2020 Chiara si era recata al Museo degli Uffizi di Firenze per uno shooting fotografico organizzato per Vogue Hong Kong. Con l’occasione, la stessa aveva visitato il Museo in compagnia del direttore Eike Schmidt. Proprio in quella giornata, Chiara postava la famosa foto davanti alla Venere di Botticelli, destinata a destare uno scandalo senza precedenti, ma contestualmente (e incontrovertibilmente), avvicinava il pubblico dei giovani al museo come non accadeva da tempo (forse, da mai!). Dunque, Chiara si fotografa al museo. Fin qui, nulla di strano, ci verrebbe da dire, posto che lo stesso museo non era di certo nuovo a iniziative di questo tipo, né estraneo al mondo dei social network (a titolo esemplificativo, esso è stato il primo museo in Italia a sbarcare su TikTok, la nota piattaforma dei giovani e giovanissimi). Ma, tornando al nostro titolo, perché, a partire dall’ “evento Chiara” non si può più pubblicare sui social o sul mio blog una foto agli Uffizi? E soprattutto, per chi vale questo divieto? Da quest’ultimo punto di vista, occorre in primo luogo precisare che tale divieto è sancito solo ed esclusivamente a carico degli influencer, e non dei privati, intesi come anonimi fruitori dell’arte, che pubblicano le foto a meri fini personali. Per influencer, in questo caso, deve intendersi chi utilizza i social per scopi lavorativi e commerciali. Ma da dove nasce questa regola? Ebbene, il direttore Schmidt ci tende a precisare di non essersi inventato nulla: il D.L. 83/2014 (art. 12 co. 3), infatti, così come consente di scattare fotografie alle opere per fini personali e di studio, al contempo vieta l’utilizzo a fini commerciali, a meno che non sia stata rilasciata dal Museo previa autorizzazione e il pagamento di un canone. Restano esclusi da tale divieto, precisa il direttore, i privati che gestiscano blog a “uso personale, o saltuario, o scientifico, o di cronaca o comunque non di lucro”. La ratio sottesa a tale scelta è quella di evitare che chi fa un uso commerciale dei social si serva di fotografie scattate all’interno del Museo per ottenere pubblicità o facilitare la vendita dei propri prodotti, senza che sia corrisposto un canone per lo sfruttamento commerciale dell’immagine...

Mascherine chirurgiche con marchio CE contraffatto: il reato sussiste? Che cosa ne è del profitto sequestrabile?

La sentenza n. 39356/2021 della Cassazione prende in esame un caso di vendita di mascherine chirurgiche con marchio CE contraffatto. I reati contestati sono i seguenti: frode in commercio e vendita di prodotti industriali con segni mendaci. Sussiste l’illecito penale tutte le volte in cui si ingeneri nel consumatore l’errata convinzione che i prodotti rechino il marchio CE - Comunità Europea -, poiché l’apposizione di quest’ultimo ha la funzione di certificare la conformità del prodotto ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato Europeo. Ma qual è il profitto del reato suscettibile di sequestro preventivo e di confisca? Ebbene, per la Suprema Corte non ci si deve riferire alla somma incassata dalle vendite, bensì a quella risultante dalla differenza tra quanto ricavato e quanto speso per la fornitura delle mascherine, escluse le imposte (per esempio l’IVA). La sentenza vede il ritorno della giurisprudenza a pronunciarsi, in un contesto peculiare come quello dell’emergenza Covid, sui reati di frode in commercio e vendita di prodotti industriali con segni mendaci, nonché sulla quantificazione del profitto del reato. La vicenda traeva origine innanzi il Tribunale di Piacenza, il quale, con ordinanza del 17 dicembre 2020, aveva rigettato l’istanza di riesame proposta dall’indagato avverso decreto di sequestro preventivo disposto, per la somma di Euro 250.813,70, nell’ambito di procedimento per i reati di cui agli artt. 515 e 517 c.p. L’accusa era di vendita di mascherine di tipo chirurgico con marchio CE contraffatto, senza la prescritta certificazione di conformità, contestazione che veniva impugnata mediante ricorso per Cassazione. Secondo il ricorrente non risultava integrata la fattispecie di cui al capo d’imputazione, non essendovi alcuna diversità di oggetto tra quanto pattuito e quanto consegnato agli acquirenti, e trovandosi peraltro negli stessi atti di indagine conferma della insussistenza dell’illecito penale. Nell’annotazione della P.G. si sarebbe in particolare riferito che per le mascherine chirurgiche, dispositivi medici di classe I, non risultasse necessaria alcuna autorizzazione o certificazione prima della loro messa in commercio. Nella consulenza tecnica fatta eseguire dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo si sarebbe rilevato inoltre come la certificazione CE per i dispositivi di categoria I (come quelli in oggetto, non mascherine FFP2 ma semplici mascherine monouso non costituenti dispositivo medico) fosse prevista su criteri autocertificativi, senza nessun intervento di enti o di certificatori esterni, ma sulla base di un'auto attestazione da parte del fabbricante o dell'importatore. Infatti, ai sensi del D.Lgs. n. 46 del 1997,...