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Mascherine chirurgiche con marchio CE contraffatto: il reato sussiste? Che cosa ne è del profitto sequestrabile?

La sentenza n. 39356/2021 della Cassazione prende in esame un caso di vendita di mascherine chirurgiche con marchio CE contraffatto.
I reati contestati sono i seguenti: frode in commercio e vendita di prodotti industriali con segni mendaci. Sussiste l’illecito penale tutte le volte in cui si ingeneri nel consumatore l’errata convinzione che i prodotti rechino il marchio CE – Comunità Europea -, poiché l’apposizione di quest’ultimo ha la funzione di certificare la conformità del prodotto ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato Europeo.

Ma qual è il profitto del reato suscettibile di sequestro preventivo e di confisca?
Ebbene, per la Suprema Corte non ci si deve riferire alla somma incassata dalle vendite, bensì a quella risultante dalla differenza tra quanto ricavato e quanto speso per la fornitura delle mascherine, escluse le imposte (per esempio l’IVA).
La sentenza vede il ritorno della giurisprudenza a pronunciarsi, in un contesto peculiare come quello dell’emergenza Covid, sui reati di frode in commercio e vendita di prodotti industriali con segni mendaci, nonché sulla quantificazione del profitto del reato.
La vicenda traeva origine innanzi il Tribunale di Piacenza, il quale, con ordinanza del 17 dicembre 2020, aveva rigettato l’istanza di riesame proposta dall’indagato avverso decreto di sequestro preventivo disposto, per la somma di Euro 250.813,70, nell’ambito di procedimento per i reati di cui agli artt. 515 e 517 c.p. L’accusa era di vendita di mascherine di tipo chirurgico con marchio CE contraffatto, senza la prescritta certificazione di conformità, contestazione che veniva impugnata mediante ricorso per Cassazione.
Secondo il ricorrente non risultava integrata la fattispecie di cui al capo d’imputazione, non essendovi alcuna diversità di oggetto tra quanto pattuito e quanto consegnato agli acquirenti, e trovandosi peraltro negli stessi atti di indagine conferma della insussistenza dell’illecito penale. Nell’annotazione della P.G. si sarebbe in particolare riferito che per le mascherine chirurgiche, dispositivi medici di classe I, non risultasse necessaria alcuna autorizzazione o certificazione prima della loro messa in commercio.
Nella consulenza tecnica fatta eseguire dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo si sarebbe rilevato inoltre come la certificazione CE per i dispositivi di categoria I (come quelli in oggetto, non mascherine FFP2 ma semplici mascherine monouso non costituenti dispositivo medico) fosse prevista su criteri autocertificativi, senza nessun intervento di enti o di certificatori esterni, ma sulla base di un’auto attestazione da parte del fabbricante o dell’importatore. Infatti, ai sensi del D.Lgs. n. 46 del 1997, art. 11, comma 5, non sarebbe stato previsto alcun intervento di enti per la messa in commercio, ma la sola auto attestazione di conformità, essendo il suddetto intervento necessario solo per i dispositivi appartenenti alle classi più elevate (2, 2b e 3).
Peraltro, la società importatrice della merce aveva pubblicizzato le mascherine come dotate di marchio CE e aveva garantito alla S.r.l. dell‘indagato la regolarità della documentazione con il rispetto delle normative italiane e comunitarie.
Il packaging e l’etichettatura delle mascherine, inoltre, erano stati effettuati dalla venditrice senza alcuna modifica da parte della società ricorrente, la quale, in buona fede, aveva fatto ragionevole affidamento della regolarità delle merci sdoganate, con la conseguente responsabilità del solo importatore (ex art. 162, del Regolamento UE 9 ottobre 2013 n. 952).
Ciò che più rileva, tuttavia, è che nel ricorso si lamentava violazione di legge in punto di quantificazione del profitto del reato, indicato nel sequestro in complessivi Euro 250.813,70, pari all’intera somma di vendita delle mascherine; mentre, ad avviso dell’indagato, il profitto del reato doveva ritenersi al netto dei costi sostenuti per la compravendita delle mascherine, così che dalla somma ottenuta per la vendita si doveva detrarre, come minimo, l’importo relativo all’acquisto. Diversamente, il sequestro sarebbe stato addirittura punitivo, perché disposto su somme superiori al profitto del reato.

Quanto all’accertamento dell’illecito, la Suprema Corte rilevava come la società ricorrente avesse venduto mascherine chirurgiche con marchio CE contraffatto e senza la prescritta certificazione di conformità, e di “conseguenza idonee ad indurre in inganno i compratori sulla qualità del prodotto”.

A conferma, si è evidenziato nella sentenza che “integra il reato di frode nell’esercizio del commercio la consegna di merce – nella specie, occhiali da sole – recante la marcatura CE – indicativa della locuzione ‘China Export” – apposta con caratteri tali da ingenerare nel consumatore la erronea convinzione che i prodotti rechino, invece, il marchio CE – Comunità Europea -, poiché l’apposizione di quest’ultimo ha la funzione di certificare la conformità del prodotto ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato Europeo”.

Ciò che qui rileva, tuttavia, è che il ricorso è risultato fondato relativamente alla determinazione del profitto e della somma da sequestrare. Innanzitutto, gli Ermellini hanno ricordato come il profitto del reato sia costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato mentre il prezzo rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato, costituendo pertanto un fattore incidente esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato. Pertanto, nel profitto del reato non può essere ricompreso il costo che l’imprenditore ha pagato per l’acquisto delle merci poi rivendute commettendo i reati, e che neanche l’imposta, l’IVA, deve calcolarsi per la determinazione dello stesso, essendo entrambe le voci estranee al “vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato”.

In secondo luogo, ai fini della determinazione del profitto, non sono utilizzabili parametri valutativi di tipo aziendalistico, come il criterio del profitto netto, che porrebbe a carico dello Stato il rischio di esito negativo del reato e sottrarrebbe, contemporaneamente, il reo a qualunque rischio di perdita economica.

Ne deriva l’annullamento dell’ordinanza impugnata limitatamente alla quantificazione del profitto sequestrabile e il rinvio per nuovo giudizio sul punto al Tribunale di Piacenza; il ricorso nel resto è stato invece dichiarato inammissibile.

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